Scavo
La scoperta del deposito pleistocenico di Rebibbia - Casal de 'Pazzi e il suo scavo, eseguito dalla Soprintendenza Archeologica di Roma dal 1981 al 1985, e diretto dalla Dott.ssa Anna Paola Anzidei, hanno contribuito considerevolmente ad arricchire le conoscenze sulle fasi più antiche del popolamento umano nel territorio di Roma e, più in generale, della penisola italiana.
Lo scavo, che interessò una superficie di oltre 1200 mq, portò alla scoperta di un vasto deposito pleistocenico, interpretato come una porzione del letto di un antico fiume. L’ampiezza dello scavo e la mole dei ritrovamenti richiesero la collaborazione di molte figure professionali come A.G. Segre per la geologia e la stratigrafia, P. Cassoli per i reperti faunistici, A. Bietti per l’archeologia, nonché il costante contributo tecnico-scientifico di M. Ruffo sul cantiere.
La durata e l’estensione dello scavo richiese il contributo finanziario di più Enti. In un primo momento furono messi a disposizione fondi dalla V Ripartizione del Comune di Roma (Lavori Pubblici), da cui dipendevano i lavori di urbanizzazione in corso, e successivamente dal Ministero per i Beni Culturali. Le ricerche interessarono anche altri cantieri presenti nella zona, in fase di urbanizzazione, attraverso carotaggi che fornirono preziose indicazioni per la comprensione dell’assetto geologico del territorio.
Il sito, situato sulla riva destra dell’Aniene, ad una quota di 32 m s.l.m., era caratterizzato da strati di ghiaie e sabbie piroclastiche (cioè originate rocce di origine vulcanica) in cui sono furono rinvenuti, con distribuzione non uniforme, industria litica e ossa fossili.
Le ossa appartenevano soprattutto a grandi mammiferi (in particolare Elephas (Palaeoloxodon) antiquus, Hippopotamus amphibius, Bos primigenius, Cervus elaphus, Dicerorhinus sp.) e uccelli acquatici. Nel livello più basso, quasi sul fondo del bacino fluviale, fu rinvenuto un frammento di parietale umano.
Nell’ampio deposito furono asportati i riempimenti che riempivano l’alveo fino ad arrivare ad una delle rive del fiume. Una barriera naturale formata dal substrato di 'tufo litoide', roccia prodotta dal Vulcano Albano circa 360.000 anni fa, arrotondata poi dalle acque, aveva determinato un accumulo di resti faunistici di grandi dimensioni in un punto specifico del percorso fluviale, in particolare erano rimaste incastrate, tra le scogliere e i blocchi di tufo, zanne e ossa di Elephas.
Nella parte più bassa del letto del fiume erano poi concentrati grandi blocchi trascinati dalla corrente, mentre le sponde erano più libere.
Lo spessore del deposito superava, al centro dell’alveo, oltre due metri e progressivamente diminuiva, fino a scomparire, in corrispondenza delle sponde. Di conseguenza, nelle aree marginali diminuiva anche la concentrazione di resti faunistici, in particolare quelli di grande taglia.
Questa variava anche in relazione alla composizione e allo spessore del singoli strati; infatti era maggiore in quelli costituiti di materiale piroclastico grossolano (ghiaie) e minore negli strati di sabbia e limi.
Complessivamente furono rinvenuti circa 2.200 resti ossei e oltre 1.700 strumenti litici, che, a causa della natura fluviale del deposito, sono certamente in deposizione secondaria e presentano diversi gradi di arrotondamento.
Sia per numero di ritrovamenti che per la loro dimensione, la specie animale che è diventata poi simbolo del sito, è l’Elephas (Palaeoloxodon) antiquus, rappresentato soprattutto dai resti di zanne (25 intere e una cinquantina frammentarie), ma anche da molari (60 interi, 120 frammentari), da frammenti di bacino e cranio e da ossa lunghe.
Nel corso dello scavo tutti i reperti sono stati numerati e catalogati secondo la loro posizione stratigrafica e spaziale, e quindi identificati con coordinate, per poter poi ricostruire la loro distribuzione e un possibile ordine cronologico di deposizione. In particolare, i reperti la zona vicino alle sponde avrebbero potuto essere soggetti a spostamenti più limitati a causa della corrente più debole, al contrario di quelli raccolti nel centro del letto del fiume, dove la corrente era certamente più forte, potevano aver percorso più strada.
L’abbondante industria litica rinvenuta è quasi tutta ricavata da ciottoli di selce, sia proveniente dallo stesso deposito fluviale che da affioramenti lontani fino a 50 km dal sito.
Sono rappresentati molti strumenti diversi, ma in maggioranza si tratta di strumenti tipici del Paleolitico medio, quali raschiatoi, denticolati, intaccature.
Un frammento di diafisi di elefante è stato intenzionalmente modificato con distacchi che ne hanno modificato e assottigliato l’estremità. Altri distacchi sono visibili su un’epifisi metapodiale di Bos primigenius. Entrambi gli oggetti sono stati usati come strumenti.
Nel giugno del 2013, durante la sistemazione a giardino nell’area esterna al museo, che prevedeva la realizzazione di un sentiero, di 3 aree di sosta destinate ad attività di tipo didattico e la messa a dimora di piante compatibili con gli ambienti pleistocenici, venne effettuata una seconda, breve campagna di scavo. Infatti durante i lavori, in un’area già interessata da uno sbancamento eseguito durante negli anni ’80, venne eseguito uno scavo a ruspa che intercettò una successione di strati di sabbie e ghiaie riferibili a parte deposito archeologico ancora in posto.
In accordo con la dott.ssa Anna de Santis, responsabile per la preistoria della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma, venne quindi eseguito lo scavo stratigrafico di un piccolo lembo di deposito archeologico. Si trattava di un’area di sponda del corso fluviale principale, interessato anche da un altro piccolo canale fluviale di regime piuttosto intenso.
I dati provenienti da questa seconda campagna confermano, in linea di massima, le dinamiche di accumulo già osservate in passato, ma studi ed approfondimenti sono ancora in corso.